Krama si fonda sugli Yoga Sutra di Patanjali, nella (apparente) contraddizione che “in realtà non c’è nessun anga dello yoga che possa veramente servire da mezzo per raggiungere la condizione anuttara ‘quella che non ha nulla che la trascenda’”.
(Tantraloka, Abhinavagupta)
tapaḥ svādhyāya-īśvara-praṇidhānāni kriyā-yogaḥ | (YS II.1)
Nel capitolo che descrive la pratica Patanjali elenca tre mezzi (Upāya), che permettono di riconoscere la nostra incapacità di vedere le cose chiaramente:
Pranidhana
La sadhana (pratica) si sviluppa secondo le tre direttrici tracciate da Patanjali, sulla base di una trama non lineare ma ciclica, in cui ciascun upāya è continuamente intrecciato all’altro. In virtù di questa circolarità, la pratica completa che proponiamo nella scuola ha il nome di Krama mandala e contiene tutti gli upāya per indurre ad una esplorazione dell’anupāya, il non-mezzo, tutto ciò che non è codificato ed è la trama della nostra vita quotidiana in ogni suo respiro.
Con un approccio il più possibile adogmatico e diretto alla riduzione di duḥkha (sofferenza), il Krama Mandala integra i mezzi dell’hatha yoga, dello jnana yoga, del bhakti, attraverso la pratica di: yama e niyama; āsana, mudra e prāṇāyāma; pratyāhāra e yoga nidra; dhāraṇā e meditazione; studio dei testi e mitologia; mantra; approfondimenti sinergici provenienti da altre discipline volti a promuovere il dialogo tra Oriente ed Occidente.
“La realtà contemplata dal massimo livello di coscienza è esperita come un singolo, immutabile (akrama) intero. Al livello inferiore noi esperiamo la medesima realtà come una sequenza (krama) di eventi – come posizioni che cambiano nello spazio e come una transizione continua da un momento all’altro nel tempo” (Tantraloka)
Krama letteralmente vuol dire sequenza, la sua radice kram significa “fare un passo”: è un concetto chiave del nostro esistere, caratterizzato da continuo cambiamento e trasformazione. Il punto fermo celebrato da Eliot nei Quattro quartetti ed il centro di gravità permanente cantato da Battiato in eredità da Gurdijeff è sfondo di ogni pratica, e la sequenza non ne è che manifestazione.
Le pratiche del Krama Mandala si ispirano ad alcuni principi essenziali:
Rasa – Il sentire. Il sentire viene prima e dopo tutte le tecniche: ogni scienza non può che essere espressione del mistero del vivere. Anche laddove sembra che l’adesione alla tecnica sia totalizzante, in realtà la richiesta ultima dello yoga è quella di un incondizionato abbandono alla vita, esattamente così com’è.
Saṃdhyā – L’integrazione. La scuola intende creare dei ponti tra pratiche che muovono nella stessa direzione, cioè il perenne “conosci te stesso”. Pur collocandosi nel solco del lignaggio di Krishnamacharya, la scuola fa anche riferimento allo Śivaismo tantrico del Kashmir (la scuola krama era proprio uno dei filoni di questo movimento), al buddhismo, allo zen, alla mistica cristiana. L’integrazione non può che tenere conto anche del contesto attuale: Krama promuove incontri e dialoghi con discipline (neuroscienze, filosofia, biologia, arte, psicologia, ecc.) che permettano di ricordare da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo.
“Yato math, Tato path”, “ci sono tante vie quanti i ricercatori”, era solito ricordare il mistico Ramakrishna.
Viniyoga – L’adattamento. Le pratiche saranno il più possibile adattate alle esigenze dell’individuo. Tutte le pratiche si ispirano al principio di gradualità, per permettere al corpo e alla mente un ascolto più profondo e per rendere la pratica sempre più personalizzata ed autonoma.
Sangha – La condivisione. Come ha suggerito Śiva al saggio Bharadvāja, qualsiasi accumulo di conoscenza è vano se non è praticato nella vita e quindi condiviso. L’idea è quella di creare una comunità che possa trovare un luogo di ritrovo non solo per la pratica, ma soprattutto per i dubbi della quotidianità.
“Ogni goccia d’acqua si unisce a un’altra
per sfuggire al tempo, per salvarsi” (Iosif Brodskij)
Il triangolo, simbolo della scuola, rappresenta tutto ciò che assume una forma nel tempo (krama): poiché l’akrama non può essere rappresentato.
Il Tao generò l’Uno,
l’Uno generò il Due,
il Due generò il Tre,
il Tre generò le diecimila creature.
Lao Tze – Tao te ching
Si passa dall’Uno, il tutto o il niente, al Molteplice attraverso il due (Śiva-Śakti, Puruṣa-Prakṛti) che si fa Tre: il processo è quello di movimento, resistenza e punto di equilibrio. Il tre è la matrice da cui si sviluppano tutte le molteplicità: Nulla può essere circondato da una figura geometrica che abbia meno di tre linee rette.
Le tre sillabe di OM che anticipano il silenzio finale, i tre stati di coscienza veglia-sogno-sonno senza sogni, i tre guṇa, i tre doṣa, la trimurti, ma anche i tre stati dell’acqua, considerata da sempre principio creatore, i triangoli della piramide che si uniscono nell’apice, la triade tesi-antitesi-sintesi di Hegel, la Trinità, energia luce e materia di Einstein.
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La lettera A, apice del simbolo della scuola, è essa stessa un triangolo che ha origini mitologiche. La lettera A infatti deriva dal pittogramma della testa del toro, poi stilizzata solo con le corna e quindi rovesciata. Aleph in fenicio ed ebraico significa proprio toro. Il toro, che rappresenta i più profondi istinti, è veicolo di Shiva (Nandi), che riesce a trascendere la più profonda istintività, senza sopprimerla.
Il toro è venerato dalla notte dei tempi: le corna del toro, spesso associate alla luna, rappresentano i due opposti che muovono verso l’alto in direzione dell’Uno. Presenti anche nell’iconografia cristiana, le corna rappresentano la divisione prima, la nascita degli opposti, la soglia tra l’assoluto e il molteplice.