Krama
Scritto da Alessandra Martin
“Quella è proprio un’arrogante”; “lui è un insensibile” “lei pensa solo ai soldi”; “la mia capa è diventata pazza dopo che ha avuto due figli”; “guarda quello com’è vestito”; “mi ha lasciato perché è un’imbecille”; “quella persona non è competente”; “non sono per niente bravo nello yoga perché sono un legno”.
“Quel bambino è un genio”; “sono una persona molto empatica”; “il suo ultimo film è un capolavoro”; “tu sei l’insegnante più bravo in città”.
Le nostre giornate sono costellate di giudizi, negativi o positivi. E a tutti i giudizi che formuliamo in un giorno corrispondono almeno altrettante ferite per essere stati giudicati da noi stessi o dagli altri.
Nello yoga e in discipline affini il non-giudizio è una vera e propria pratica, sottovalutata o spesso poco compresa, al punto da indurci a pensare che qualsiasi espressione su noi stessi o gli altri sia da censurare.
Per capirne un po’ di più è importante introdurre qualche altro concetto contenuto negli Yoga Sutra[1], testo essenziale se vogliamo capire cos’è lo yoga:
- Yama & Niyama (Yoga Sutra, II.29-II.45): Si tratta di vere e proprie pratiche, tra le più trascurate nello yoga contemporaneo ma le più impattanti sulle nostre relazioni con noi stessi e gli altri. Sono molteplici gli insegnamenti intrisi in queste pratiche: “pulire” i nostri spazi, fisici e mentali (saucha), imparare a far corrispondere le nostre azioni a quello che pensiamo e diciamo (satya), avere cura dei beni altrui -dal cibo che la natura ci offre al tempo delle altre persone- (asteya), non fare violenza a altri esseri che sono parte di uno stesso grande organismo interconnesso (ahimsa), trarre consiglio dalle vite e dagli esempi dei saggi (svadhyaya), avere fiducia nell’ampiezza della vita (isvara pranidhana), ecc. Tutti questi aspetti aiutano ad esplorare tanto il nostro mondo interiore quanto quello esteriore, a notare che non esiste solo il nostro interesse personale e che spesso sovradimensioniamo o sottostimiamo le nostre gioie e i nostri drammi.
- Asmita (Yoga Sutra II.6): tecnicamente uno dei pancha klesha, i cinque tormenti che ci impediscono di sperimentare a pieno la realtà delle cose. Possiamo tradurre asmita con “identificazione”: sono una madre, sono un’insegnante di yoga, sono un commesso, un dirigente, sono francese, sono comunista, sono buddhista, ecc. Consiste nell’ingabbiare il flusso della vita in ruoli ed etichette e concetti fissi e attribuire ad essi il carattere di verità assoluta. Metto gli “occhiali” da avvocato/yogi/religioso/fidanzata/motociclista/italiano/ricco/povero e non mi rendo conto che la realtà è più complessa di quella vista solo attraverso le mie lenti.
- Viveka Khyati (Yoga Sutra II.26): è un’altra pratica ma è anche il risultato della pratica. Si tratta del discernimento discriminante: grazie agli strumenti di osservazione proposti da Patanjali (ma aggiungiamo pure anche le pratiche psicosomatiche di asana, pranayama e mudra), si inizia a notare che i nostri pensieri spesso non sono lettura fedele della realtà ma aggiungono elementi che non hanno nulla a che fare con la situazione che stiamo vivendo. – La mia capa ha problemi con il figlio e io penso che il suo scarso interesse per il mio lavoro sia chiaramente collegato al fatto che io non sono abbastanza intelligente e talentuosa. – Ho un grande interesse e cura verso l’ambiente e inizio ad insultare il dipendente comunale che sta tagliando un albero storico della città, ignorando che lo sta facendo perché l’albero è malato. – E così via. Le pratiche richiedono un continuo confronto con i nostri pensieri e la realtà a cui si applicano proprio per aumentare il nostro discernimento discriminante, che potremmo anche tradurre, semplificando, come lucidità mentale.
È dall’incorporazione di queste pratiche nella vita quotidiana che sorge spontaneo il non-giudizio. Diversamente, rischia di essere solo una forzatura: si immola la propria parola sull’altare di un “volemose bene” solo pensato e non sentito.
Il punto non è quindi tanto il contenuto del giudizio, ma soprattutto quanto quel contenuto assume un carattere di verità assoluta o quanto ci impedisce di vedere altri aspetti della realtà.
Ci sono altre ragioni per cui la pratica del non-giudizio è interessante.
Giudicare è, come ogni nostra azione -mentale o fisica-, un impiego di energia. E lo yoga ha, come effetto collaterale, soprattutto quello di aiutarci a comprendere come stiamo usando la nostra energia quotidiana, risorsa preziosissima dato che il tempo che abbiamo a disposizione nel nostro corpo ha una scadenza. È un concetto economico molto basico: più mi rendo conto di come sto investendo le mie risorse, più aumenta il margine di scelta sui prossimi investimenti.
Un’altra rilevante distinzione che spesso trascuriamo è quella tra emettere giudizi e imparare ad esprimerci in modo che noi o gli altri si prendano le proprie responsabilità. E anche in questo senso è utile conoscere qual è il motore che ci sta muovendo in modo che le nostre parole o azioni siano il più chiare possibile per me e per gli altri, in modo da andare nella direzione che ho in mente.
Prendiamo l’esempio o di un padre manesco. È immediato il giudizio in un caso così eclatante. Poniamo che poco dopo aver formulato il nostro pensiero giudicante scoprissimo che quell’uomo ha un disturbo mentale o che dagli 8 ai 13 anni è stato seviziato da suo padre o stuprato da uno zio. Modificherebbe il nostro giudizio?
Al di là del contenuto del nostro giudizio, cosa diversa è invece esprimerci con discernimento ed anche denunciare una situazione perchè il padre assuma le proprie responsabilità, con una serie di misure, possibilmente proporzionate al singolo caso, che possono consistere in sanzioni sociali, penali, forme di riabilitazione o, viceversa, nella neutralizzazione del soggetto laddove la violenza sia irrimediabile. Sulla possibilità di riabilitazione dell’essere umano, è molto bella la storia buddhista di Angulimala, che mi limito a suggerire per non allungare troppo l’articolo, come al mio solito.
Infine, un altro aspetto pericoloso del giudicare consiste nell’attribuire etichette che rimangono appiccicate a noi e agli altri impedendoci di evolvere in altro.
A questo proposito è famosa una storiella che riguarda il Buddha.
*
Si dice che una volta, un uomo si avvicinò a Buddha e, senza dire una parola, gli sputò in faccia. I suoi discepoli si arrabbiarono.
Ananda, il discepolo più vicino, chiese a Buddha:
– Dammi il permesso di dare a quest’uomo ciò che merita!
Buddha si asciugò con calma e rispose ad Ananda:
– No. Io parlerò con lui.
E unendo i palmi delle mani in segno di riverenza, disse all’uomo:
– Grazie. Con il tuo gesto mi hai permesso di vedere che la rabbia mi ha abbandonato. Ti sono estremamente grato. Il tuo gesto ha anche dimostrato che Ananda e gli altri discepoli possono essere ancora assaliti dalla rabbia. Grazie! Ti siamo molto grati!
Ovviamente, l’uomo non credette a ciò che udì, si sentì commosso e angosciato. Non riusciva a dare una spiegazione a quanto era accaduto. Fu preso da un tremore per tutto il corpo, la sudorazione gli fece bagnare le lenzuola. In vita sua non aveva mai incontrato un uomo con un carisma così forte. Il Buddha aveva frantumato i suoi pensieri e tutto il suo modo di vivere ed agire.
La mattina successiva l’uomo tornò dal maestro e si gettò ai suoi piedi. Allora il Buddha si rivolse ad Ananda:
– Hai visto? Quest’uomo è tornato per dirmi qualcosa. Anche questo gesto di toccare i miei piedi è un suo modo per dirmi ciò che altrimenti non gli era possibile spiegare a parole.
L’uomo guardò il Buddha e disse:
– Perdonami per quello che ti ho fatto ieri.
Il maestro gli rispose che non c’era nulla di cui perdonargli e gli spiegò:
– Come lo scorrere del Gange fa sì che la sua acqua non sia mai la stessa, così neppure l’uomo è uguale a quello di prima. Io non sono più la stessa persona a cui tu ieri hai fatto qualcosa. E nemmeno colui che ieri mi ha sputato adesso è qui. Io non vedo nessuno arrabbiato come lui. Ora tu non sei più lo stesso uomo di ieri, non mi stai facendo nulla, quindi, non c’è niente che io ti debba perdonare. Le due persone, l’uomo che ha sputato e l’uomo che ha ricevuto lo sputo, entrambi non sono più qui. Perciò, adesso parliamo di altro.
*
Per concludere, non dobbiamo fraintendere la pratica yoga con l’indossare una maschera di santità o di repressione delle pulsioni umane più profonde. Fingere è anzi proprio contrario a uno degli inviti che abbiamo menzionato prima: satya.
Anche perché le pulsioni, se ci sono, hanno un senso e, se represse, trovano comunque delle crepe per uscire.
Reprimere il giudizio potrebbe anzi portarci a creare più tensione psico-fisica che non ad esprimerlo. O addirittura il giudizio fine a sé stesso può avere una sua utilità: il gossip è stato molto utile allo sviluppo delle comunità di sapiens, favorendo la cosiddetta rivoluzione cognitiva, come spiega lo storico Harari nel suo libro Sapiens – Breve storia dell’umanità.
Praticare il non-giudizio è anzitutto stare nella realtà, prendendosi sempre di più la responsabilità delle proprie azioni. E, se si chiama “pratica”, è perchè non siamo già bravi dall’inizio, ma ci incamminiamo in un percorso fatto di alti e bassi, di speranze e disillusioni, verso una maggiore conoscenza di noi stessi.
Del resto, se la consapevolezza è fatta dei suoi contenuti, come diceva Krishnamurti, già il solo osservare che stiamo giudicando è un atto di grande presenza.
*
Letture consigliate:
Gli Yoga Sutra di Patanjali, E. Bryant
L’unico desiderio, E. Baret
Essere zen, C.J. Beck
[1] L’elaborazione proposta non è letterale, si basa sull’esperienza personale e sugli insegnamenti ricevuti ed è un tentativo di applicare un testo antico ad un contesto moderno.
Krama
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.
Krama
Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma. Non ce n’entra più!”.
“Come questa tazza” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”
Tratto da “101 Storie Zen”
Krama
Scritto da Alessandra Martin
A partire da Krishnamacharya e poi grazie al suo allievo Pattabhi Jois, a Mysore nasce e si sviluppa una particolare forma di hatha yoga, chiamata ashtanga vinyasa yoga. Ashtanga perchè il riferimento primo della pratica sono gli otto passi (ashta o aṣṭa è otto, anga sono le membra, le parti) suggeriti da Patanjali negli Yoga Sutra (YS, II.29). Vinyasa perchè nella pratica non si può prescindere dall’osservazione di prana, nella forma più evidente del respiro, e dal sistema dei bandha, che permettono una migliore regolazione dell’energia. Asana c’è solo se ci sono stabilità e agio, o meglio felicità come dice Pattabhi Jois traducendo Patanjali. Asana e respiro rendono il corpo forte e purificano le nadi, da cui dipende la salute del sistema nervoso stesso. Per quanto oggi si metta in evidenza soprattutto la componente fisica della pratica, Pattabhi Jois ha insegnato Sanscrito e Filosofia al College di Mysore per 36 anni: “senza filosofia, la pratica non può essere adeguata; la pratica dello yoga è il punto di partenza per lo studio della filosofia dello yoga”.
Per un’intervista a Pattabhi Jois di Sandra Anderson: https://www.harmonyslater.com/interview-pattabhi-jois
Nel 1992, Pattabhi Jois guida la prima serie (Yoga Chikitsa, che significa “trattamento” o “cura”, perchè ha lo scopo di riallineare il corpo) e la seconda serie (Nadi Shodana, perchè agisce più in profondità su nadi e sistema nervoso) in due video diventati molto famosi. Tra gli studenti: Chuck Miller, Maty Ezraty, Eddie Stern, Tim Miller, Richard Freeman, Karen Haberman.
Krama
Scritto da Alessandra Martin
Lo yoga e l’Occidente: la letteratura e la filosofia
Gli haiku sono componimenti poetici giapponesi di 17 sillabe -divulgati soprattutto nel periodo Edo (1603-1868) e poi ripresi anche più liberamente in Occidente- che descrivono, molto meglio di altre forme letterarie, il “vuoto pieno”, l’essenza delle cose così come sono.
Om Tat Sat.
Le parole di Roland Barthes ne “L’impero dei segni” raccontano molto bene il connubio tra queste poesie e il mondo zen.
“Lo zen, nella sua completezza intraprende battaglie contro ogni prevaricazione del senso. […] non si tratta d’arrestare il linguaggio su un silenzio carico, pieno, profondo, mistico, oppure su un vuoto dell’anima che si disporrebbe alla comunicazione divina (lo zen è senza Dio); ciò che viene enunciato non deve svilupparsi né nel discorso né nell’assenza del discorso; ciò che è enunciato è opaco e tutto ciò che si può fare è ripeterlo; è ciò che si raccomanda all’apprendista che elabora un koan (cioè un aneddoto proposto dal maestro): non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso), ma di rimasticarlo, «sino a che casca il dente».
Tutto il pensiero zen, di cui lo haikuai non è che l’aspetto letterario, appare così come una immensa pratica votata a sospendere il linguaggio, a rompere questa sorta di radiofonia interiore che risuona continuamente in noi, sin dentro il nostro sonno (forse è proprio per questo che s’impedisce agli apprendisti di addormentarsi), una pratica votata insomma a svuotare, a sconcertare, a prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell’anima: e può darsi che ciò che, nello zen, si chiama il satori e che gli occidentali non possono tradurre che con termini vagamente cristiani (illuminazione, rivelazione, intuizione) non sia altro che una sospensione panica di linguaggio, il bianco che cancella in noi il regno dei Codici, la rottura di questa recita interiore che costituisce la nostra persona; ora, se questo stato di a-linguaggio è una liberazione, forse è proprio perché, per l’esperienza buddista, la proliferazione del pensiero alla seconda (il pensiero del pensiero) […] è ritenuto un vincolo; mentre invece, è l’abolizione del pensiero alla seconda che rompe l’infinito vizioso del linguaggio.
In tutte queste esperienze, così sembra, non si tratta di annientare il linguaggio sotto il silenzio mistico dell’’ineffabile, ma di misurarlo, d’arrestare la trottola verbale che coinvolge nel suo moto rotatorio il gioco ossessivo delle sostituzioni simboliche”.
Una selezione di alcuni meravigliosi haiku che parlano -senza parlarne- di Tat e della nostra difficoltà a percepirlo:
Il tetto s’è bruciato –
ora
posso vedere la luna.
Misuta Masahide
°
II vecchio acquitrino:
Una rana vi salta dentro,
Oh! il rumore dell’acqua.
Matsuo Bashō
°
Scrivo, cancello, riscrivo,
Cancello di nuovo, e poi
Un papavero fiorisce.
Tachibana Hokushi
°
Tra le erbe
un fiore bianco sboccia.
Ignoto il suo nome.
Masaoka Shiki
°
Anche a Kyoto
Sentendo il grido del cuculo
Desidero Kyoto.
Matsuo Bashō
Krama
Scritto da Alessandra Martin
Lo yoga e l’Occidente: la letteratura e l’arte
“Il mondo comincia oggi. E’ una realtà per me, ogni volta che non ho paura”. (J. Lusseyran)
Jacques Lusseyran (1924-1971) all’età di otto anni ha perso la vista in seguito ad un infortunio.
Durante la guerra partecipa alla Resistenza, viene arrestato dalla Gestapo e internato a Buchenwald.
Definito il pittore della luce interiore, Lusseyran, cieco, riesce a mostrarci con le sue parole mondi che noi fatichiamo a vedere con due occhi bene aperti:
“Il mondo non mi era sfuggito di colpo, al contrario lo tenevo stretto più di quanto ne fossi capace prima. I miei occhi non si erano chiusi, si erano rovesciati. Ora guardavo il mondo dal di dentro”.
A proposito di paura, anche Etty Hillesum, che ha sperimentato il campo di concentramento come Lusseyran, ci invita a vivere pienamente il mondo che comincia ad ogni istante:
“Debbo anche vincere quella paura indefinita che mi porto dentro. La vita è difficile davvero, è una lotta di minuto in minuto (non esagerare, tesoro!), ma è una lotta invitante. Una volta io m’immaginavo un futuro caotico perchè mi rifiutavo di vivere l’istante più prossimo. Ero come un bambino molto viziato, volevo che tutto mi fosse regalato. A volte avevo la certezza – peraltro molto vaga – che in futuro sarei potuta diventare “qualcuno” e avrei realizzato qualcosa di “straordinario”, altre volte mi ripigliava quella paura confusa che “sarei andata in malora lo stesso”. Comincio a capire perchè mi rifiutavo di adempiere ai compiti che avevo sotto gli occhi, mi rifiutavo di salire verso quel futuro di gradino in gradino.
E ora, ora che ogni minuto è pieno, pieno sino all’orlo di vita e di esperienza, di lotta e vittorie e cadute, ma subito dopo di nuovo lotta e talvolta pace, – ora non penso più a quel futuro, in altre parole mi è indifferente se riuscirò a produrre qualcosa di straordinario oppure no, perchè sono certa che ne verrà fuori qualcosa. Una volta vivevo sempre come in una fase preparatoria, avevo la sensazione che ogni cosa che facevo non fosse quella “vera”, ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora questo sentimento è cessato”.
L’immagine in evidenza è di Francis Bacon, “Studio per un ritratto di John Edwards” (1986).
Krama
Scritto da Alessandra Martin
“Sappi che il Sé è il padrone del carro ed il corpo è il carro, sappi che l’intelletto poi è l’auriga e la mente le redini.
I cavalli sono i sensi, gli oggetti dei sensi sono l ‘arena. I saggi chiamano “colui che prova piacere” l’insieme di Sé, di sensi e di mente. Colui la cui mente è instabile ha i sensi indocili, come un auriga che abbia cavalli bizzarri. Ma colui che possiede la ragione e ha la mente sempre presente, costui ha i sensi docili, come un auriga che abbia cavalli docili. Colui che è privo di ragione, senza criterio, sempre impuro, costui non giunge alla sede suprema, ma ricade nel ciclo delle esistenze. Ma colui che è dotato di ragione e di criterio, ed è sempre puro, giunge a quella sede donde non si ritorna più alla vita mortale. L’uomo che ha come auriga la ragione e come redini la mente, costui giunge al termine del cammino, alla sede altissima di Vishnu”.
Questa immagine dalla Katha Upanishad, che compare anche nelle Śvetāsvatara-upanişad e nella Maitrī) è stata ripresa da Platone nel Fedro e più recentemente da Gurdjieff.
Dai Veda al ‘900, questa simbologia mostra il persistente tentativo dell’essere umano di comprendere il legame tra gli oggetti che ci circondano, i nostri desideri, i vari strati mentali e quello spazio più profondo e talora inaccessibile da cui scaturisce l’intera osservazione.
Auriga, carro, cavalli sono parte di un tutto che si muove all’unisono.
Proprio come nella metafora platonica, dove due sono i cavalli trainanti: quello di buona razza, legato alla forza di volontà e quello “maligno”, l’anima concupiscibile legata al desiderio.
Se teniamo conto solo di un cavallo, la biga non si muove o si muove nell’affanno. Lo stesso accade se l’auriga, che rappresenta il pensiero razionale -più debole dei cavalli ma il solo capace di dare una direzione- non si coordina con i cavalli stessi.
Anche Gurdjieff usa l’immagine della carrozza trainata da cavalli: il veicolo è il corpo, i cavalli le emozioni e i desideri, il cocchiere è il pensiero razionale, il passeggero è l’io. I cavalli, viste le tante sgridate e repressioni, badano solo all’appagamenti dei sensi: quando si censurano emozioni e desideri, il risultato sarà esserne schiavi. Il cocchiere sa solo elaborare dati e azioni, senza provare emozioni; gli io si alternano continuamente. L’esito è che la carrozza si muove senza direzione, sempre lungo le stesse strade, in un viaggio monotono e senza vita.
Invece il nostro corpo avrebbe bisogno di percorrere strade sterrate (cioè esercizi e pratiche quotidiane come quella dello yoga) per contrastare la pigrizia (uno dei nove ostacoli alla sadhana anche per Patanjali) che ci impedisce di manifestare tutte le nostre energie.
Solo grazie all’esercizio si può acquisire consapevolezza del fatto che tutte le parti dell’essere umano sono comunicanti e fanno parte di una macchina già perfetta, che solo non sappiamo ancora guidare.
Corpo e mente non sono nemici l’uno dell’altro: come suggerisce Svatmarama nell’Hatha Yoga Pradipika, Hatha yoga e Raja yoga non possono che essere pratiche comunicanti.
Krama
Scritto da Alessandra Martin
Studia i testi e poi dimenticali: Tat Tvam Asi
Primo Khanda. C’era un tempo Svetaketu Aruni. Suo padre Uddhalaka gli disse: “Pratica il brahmacarya presso un Maestro, che non vi sia nella nostra discendenza un brahmana senza conoscenza sacra”. Svetaketu divenne perciò un discepolo dall’età di dodici anni, studiò tutti i Veda ed all’età di ventiquattro anni tornò a casa, superbo, fiero della sua erudizione.
Suo padre gli disse: “Svetaketu, mio caro, tu sei ora superbo, fiero della tua erudizione. Ma hai mai chiesto di ricevere quell’insegnamento che permette di udire l’inudito, di pensare l’impensato, di comprendere ciò che non può essere compreso?” “Com’è, signore, questo insegnamento?”
“Mio caro, è come se da un pezzo d’argilla si conoscesse tutto ciò che è fatto d’argilla, restando tutte le diverse modificazioni null’altro che distinzioni di nome e di linguaggio riguardanti una sola realtà, l’argilla; è come se in un ornamento di rame potessi riconoscere tutto ciò che è fatto di rame; e come se in un coltellino potessi riconoscere tutto ciò che è fatto di ferro (la distinzione è puramente verbale, è solo un nome, la realtà è `ferro’) così, mio caro, è questo insegnamento”.
“Certamente i miei onorati maestri non sapevano questo; se infatti l’avessero saputo, perché mai non me lo avrebbero insegnato? Ma ti prego, signore, insegnamelo tu”. “Così sia, mio caro”.
Secondo Khanda. All’inizio, mio caro, null’altro vi era che l’Essere (sat), senza dualità. Altri dicono: All’inizio vi era il Non Essere (a-sat), senza dualità; dal Non Essere nacque l’Essere. Ma, mio caro, come potrebbe essere possibile? Come può il Non Essere generare l’Essere? Al principio delle cose c’era l’Essere puro, senza dualità. L’Essere pensò: “Possa io diventare molti, possa io moltiplicarmi”. Creò il fuoco della mente (Tejas). Questo fuoco pensò: “Possa io diventare molti, possa io moltiplicarmi”. E apparve l’Oceano. Ecco perché quando si ha caldo si traspira, l’acqua è prodotta dal calore. L’Oceano pensò: “Possa io diventare molti, possa io moltiplicarmi”. E fece nascere il cibo. Ecco perché quando piove vi è cibo in abbondanza. […]
Ottavo Khanda. Uddalaka, figlio di Aruna, disse a suo figlio Svetaketu: “Lascia che ti spieghi, mio caro, la condizione del sonno. Quando una persona dorme, essa è assorbita nell’Atman: perciò si dice che dorme, perchè è assorbita nell’Atman. Come un uccello legato con una corda, dopo aver svolazzato a destra e a sinistra senza trovare dimora, si posa infine sulla corda stessa, così la mente, dopo aver svolazzato a destra e a sinistra senza trovare dimora, si posa infine sul prana stesso; perché, mio caro, la mente è legata al prana. Lascia che ti spieghi, mio caro, la fame e la sete. Quando una persona ha fame, è perchè l’acqua ha portato via ciò che la persona ha mangiato. Come si parla di guidare le vacche, i cavalli o gli uomini, così dell’acqua si dice che è ciò che “guida il cibo”. A questo proposito, mio caro, nota che il corpo è un germoglio che è spuntato, deve avere una radice. Che altro potrebbe essere la sua radice se non il cibo? E ancora, mio caro, il cibo a sua volta è un germoglio la cui radice è l’acqua. E l’acqua è un germoglio la cui radice è il calore. E il calore è un germoglio la cui radice è l’Essere. Tutte le creature hanno nell’Essere la loro radice, la loro dimora, il loro fondamento. Ora, quando una persona ha sete, è perchè il calore ha portato via ciò che la persona ha bevuto. Come si parla di guidare le vacche, i cavalli o gli uomini, così del calore si dice che è ciò che “guida l’acqua”. A questo proposito, mio caro, nota che il cibo è un germoglio che è spuntato, deve avere una radice. Che altro potrebbe essere la sua radice se non l’acqua? E ancora, mio caro, l’acqua è un germoglio la cui radice è il calore. E il calore è un germoglio la cui radice è l’Essere. Tutte le creature hanno nell’Essere la loro radice, la loro dimora, il loro fondamento. Di come ciascuna di queste tre divinità nell’uomo divenga triplice, mio caro, abbiamo già parlato. Quando una persona muore, la sua voce si ritrae nella mente; la mente si ritrae nel prana; il prana si ritrae nel calore; e il calore si ritrae nella più alta divinità. Ciò è l’Essenza più fine. E’ l’Atman di tutto il mondo. E’ la Realtà. E’ l’Atman. E tu sei ciò. Questo è il Vero. Questo è l’Atman. Che tu sei, Svetaketu”. “Ti prego, venerabile Signore, dammi di ulteriori istruzioni”, disse il figlio. “Così sia, mio caro” rispose il padre.
Nono Khanda. Come le api raccolgono il nettare di diverse piante e lo trasformano in miele, unificandone l’essenza, cosicché non è più possibile distinguere, “io sono il nettare di questa pianta, io sono il nettare di quella pianta”, così, mio caro, tutte le creature senza saperlo ritornano all’Essere. Qualsiasi cosa siano qui sulla terra, tigre, o leone, o lupo, o cinghiale, o verme, o mosca, o tafano, o zanzara, esse sono ciò. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di Essa, Essa è la vera realtà, Essa è l’Atman, e tu sei quello (Tat Tvam Asi) o Svetaketu.
Quattordicesimo Khanda. Una persona portata via dal paese di Gandhàra con gli occhi bendati e abbandonata in un luogo deserto può errare casualmente verso oriente, verso il settentrione o verso il meridione, poiché è stata portata via con gli occhi bendati ed è stata abbandonata con gli occhi bendati. Ma se qualcuno gli toglie la benda e gli dice: `Gandhàra è in quella direzione, va’ in quella direzione!’, allora, se è una persona sensata, può, chiedendo di villaggio in villaggio, ritornare a casa a Gandhàra.
Così su questa terra colui che ha un maestro sa che dovrà continuare finché non avrà raggiunto la conoscenza, la liberazione, ma poi arriverà a casa. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di Essa, Essa è la vera realtà, Essa è il tuo vero Atman, Essa sei tu o Svetaketu”. […]
Alcuni Khanda dal sesto Adhyaya della Chandogya Upanishad, in cui compare Tat Tvam Asi, uno dei più importanti Mahāvākya, i Grandi detti vedici, che significa “Tu sei quello”.
Krama
Scritto da Alessandra Martin
Lo yoga e l’Occidente: il cinema
Sì, è magnifico vivere di solo spirito, e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l’eternità, soltanto ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa. E allora non vorrei più fluttuare così, in eterno: vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi questa infinitezza legandomi in qualche modo alla terra, a ogni passo, a ogni colpo di vento. Vorrei poter dire: “ora”, “ora”, e “ora”. E non più “da sempre”, “in eterno”. Per esempio… non so… sedersi al tavolo da gioco, ed essere salutato… Anche solo con un cenno… Ogni volta che noi abbiamo fatto qualcosa, era solo per finta. […] Non che io voglia generare subito un bambino, o piantare un albero. Ma in fondo sarebbe già qualcosa ritornare a casa dopo un lungo giorno, dar da mangiare al gatto come Philip Marlowe, avere la febbre, le dita nere per aver letto il giornale; non entusiasmarsi solo per lo spirito, ma finalmente anche per un pranzo, per la linea di una nuca, per un orecchio; mentire, e spudoratamente; e camminando sentire che le ossa camminano con te; supporre, magari, invece di sapere sempre tutto… “Ah!”, “oh!”, “ahi!”: poterlo dire, finalmente, invece di “sì” e “amen”.
Da Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, 1987
Krama
Scritto da Alessandra Martin
Lo yoga e l’Occidente: la poesia.
Al punto fermo del mondo rotante.
Non corporeo né incorporeo;
non da né verso; al punto fermo là è danza,
ma non arresto né movimento.
E non chiamatelo fissità,
il luogo dove passato e futuro sono uniti.
Non movimento da né verso,
non ascesa né declino.
Fuorché per il punto, il punto fermo,
non ci sarebbe danza e c’è solo la danza.
Posso soltanto dire là noi siamo stati:
ma non so dire dove.
E non so dire, per quanto tempo,
perché questo è collocarlo nel tempo.
L’intima libertà dal desiderio pratico,
liberazione da azione e sofferenza,
liberazione dall’impulso interno
e dall’esterno, anche se li circonda
grazia di senso, una luce bianca ferma e in movimento.
Erhebung senza moto,
concentrazione senza eliminazione, un mondo nuovo
è il vecchio fatto esplicito,
capito nella completezza della sua estasi parziale,
nella risoluzione del suo parziale errore.
Eppure la concentrazione di passato e futuro
intrecciati nella debolezza del corpo che cambia,
protegge la razza umana dal cielo e dalla dannazione
che la carne non può sopportare.
Tempo passato e tempo futuro
consentono solo scarsa consapevolezza.
Essere cosciente non è essere nel tempo
ma soltanto nel tempo il momento nel roseto,
il momento sotto il pergolato dove batte la pioggia,
il momento nella chiesa piena di correnti e fumi,
si possono ricordare; uniti al passato e al futuro.
Soltanto col tempo il tempo è conquistato.
T.S. Eliot, da Burnt Norton, I quattro quartetti