31 Mar 2022
Krama
Disattenzione, Wislawa Szymborska

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,

senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

16 Feb 2022
Krama
Colmi come tazze di tè

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma. Non ce n’entra più!”.
“Come questa tazza” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”

Tratto da “101 Storie Zen”

28 Gen 2022
Krama
Ashtanga vinyasa yoga: pratica o teoria?

A partire da Krishnamacharya e poi grazie al suo allievo Pattabhi Jois, a Mysore nasce e si sviluppa una particolare forma di hatha yoga, chiamata ashtanga vinyasa yoga. Ashtanga perchè il riferimento primo della pratica sono gli otto passi (ashta o aṣṭa è otto, anga sono le membra, le parti) suggeriti da Patanjali negli Yoga Sutra (YS, II.29). Vinyasa perchè nella pratica non si può prescindere dall’osservazione di prana, nella forma più evidente del respiro, e dal sistema dei bandha, che permettono una migliore regolazione dell’energia. Asana c’è solo se ci sono stabilità e agio, o meglio felicità come dice Pattabhi Jois traducendo Patanjali. Asana e respiro rendono il corpo forte e purificano le nadi, da cui dipende la salute del sistema nervoso stesso. Per quanto oggi si metta in evidenza soprattutto la componente fisica della pratica, Pattabhi Jois ha insegnato Sanscrito e Filosofia al College di Mysore per 36 anni: “senza filosofia, la pratica non può essere adeguata; la pratica dello yoga è il punto di partenza per lo studio della filosofia dello yoga”.

Per un’intervista a Pattabhi Jois di Sandra Anderson: https://www.harmonyslater.com/interview-pattabhi-jois

Nel 1992, Pattabhi Jois guida la prima serie (Yoga Chikitsa, che significa “trattamento” o “cura”, perchè ha lo scopo di riallineare il corpo) e la seconda serie (Nadi Shodana, perchè agisce più in profondità su nadi e sistema nervoso) in due video diventati molto famosi. Tra gli studenti: Chuck Miller, Maty Ezraty, Eddie Stern, Tim Miller, Richard Freeman, Karen Haberman.

14 Gen 2022
Krama
Barthes, Zen e Haiku

Gli haiku sono componimenti poetici giapponesi di 17 sillabe -divulgati soprattutto nel periodo Edo (1603-1868) e poi ripresi anche più liberamente in Occidente- che descrivono, molto meglio di altre forme letterarie, il “vuoto pieno”, l’essenza delle cose così come sono.

Om Tat Sat.

Le parole di Roland Barthes ne “L’impero dei segni” raccontano molto bene il connubio tra queste poesie e il mondo zen.

“Lo zen, nella sua completezza intraprende battaglie contro ogni prevaricazione del senso. […] non si tratta d’arrestare il linguaggio su un silenzio carico, pieno, profondo, mistico, oppure su un vuo­to dell’anima che si disporrebbe alla comunicazione divina (lo zen è senza Dio); ciò che viene enuncia­to non deve svilupparsi né nel discorso né nell’as­senza del discorso; ciò che è enunciato è opaco e tutto ciò che si può fare è ripeterlo; è ciò che si raccomanda all’apprendista che elabora un koan (cioè un aneddoto  proposto dal mae­stro): non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso), ma di rimasticarlo, «sino a che casca il dente».

Tutto il pensiero zen, di cui lo haikuai non è che l’aspetto letterario, appare così come una immensa pratica votata a sospendere il linguag­gio, a rompere questa sorta di radiofonia interiore che risuona continuamente in noi, sin dentro il no­stro sonno (forse è proprio per questo che s’impe­disce agli apprendisti di addormentarsi), una pra­tica votata insomma a svuotare, a sconcertare, a prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell’ani­ma: e può darsi che ciò che, nello zen, si chiama il satori e che gli occidentali non possono tradurre che con termini vagamente cristiani (illuminazione, rivelazione, intuizione) non sia altro che una so­spensione panica di linguaggio, il bianco che can­cella in noi il regno dei Codici, la rottura di questa recita interiore che costituisce la nostra persona; ora, se questo stato di a-linguaggio è una liberazio­ne, forse è proprio perché, per l’esperienza buddi­sta, la proliferazione del pensiero alla seconda (il pensiero del pensiero) […] è ritenuto un vincolo; mentre in­vece, è l’abolizione del pensiero alla seconda che rompe l’infinito vizioso del linguaggio.

In tutte queste esperienze, così sembra, non si tratta di an­nientare il linguaggio sotto il silenzio mistico dell’’ineffabile, ma di misurarlo, d’arrestare la trottola verbale che coinvolge nel suo moto rotatorio il gio­co ossessivo delle sostituzioni simboliche”.

Una selezione di alcuni meravigliosi haiku che parlano -senza parlarne- di Tat e della nostra difficoltà a percepirlo:

Il tetto s’è bruciato –

ora

posso vedere la luna.

Misuta Masahide

°

II vecchio acquitrino:

Una rana vi salta dentro,

Oh! il rumore dell’acqua.

Matsuo Bashō

°

Scrivo, cancello, riscrivo,

Cancello di nuovo, e poi

Un papavero fiorisce.

Tachibana Hokushi

°

Tra le erbe

un fiore bianco sboccia.

Ignoto il suo nome. 

Masaoka Shiki

°

Anche a Kyoto

Sentendo il grido del cuculo

Desidero Kyoto.

Matsuo Bashō

24 Dic 2021
Krama
Jacques Lusseyran e Etty Hillesum: oltre il visibile

Lo yoga e l’Occidente: la letteratura e l’arte

“Il mondo comincia oggi. E’ una realtà per me, ogni volta che non ho paura”. (J. Lusseyran)

Jacques Lusseyran (1924-1971) all’età di otto anni ha perso la vista in seguito ad un infortunio.
Durante la guerra partecipa alla Resistenza, viene arrestato dalla Gestapo e internato a Buchenwald.
Definito il pittore della luce interiore, Lusseyran, cieco, riesce a mostrarci con le sue parole mondi che noi fatichiamo a vedere con due occhi bene aperti:
“Il mondo non mi era sfuggito di colpo, al contrario lo tenevo stretto più di quanto ne fossi capace prima. I miei occhi non si erano chiusi, si erano rovesciati. Ora guardavo il mondo dal di dentro”.


A proposito di paura, anche Etty Hillesum, che ha sperimentato il campo di concentramento come Lusseyran, ci invita a vivere pienamente il mondo che comincia ad ogni istante:
“Debbo anche vincere quella paura indefinita che mi porto dentro. La vita è difficile davvero, è una lotta di minuto in minuto (non esagerare, tesoro!), ma è una lotta invitante. Una volta io m’immaginavo un futuro caotico perchè mi rifiutavo di vivere l’istante più prossimo. Ero come un bambino molto viziato, volevo che tutto mi fosse regalato. A volte avevo la certezza – peraltro molto vaga – che in futuro sarei potuta diventare “qualcuno” e avrei realizzato qualcosa di “straordinario”, altre volte mi ripigliava quella paura confusa che “sarei andata in malora lo stesso”. Comincio a capire perchè mi rifiutavo di adempiere ai compiti che avevo sotto gli occhi, mi rifiutavo di salire verso quel futuro di gradino in gradino.
E ora, ora che ogni minuto è pieno, pieno sino all’orlo di vita e di esperienza, di lotta e vittorie e cadute, ma subito dopo di nuovo lotta e talvolta pace, – ora non penso più a quel futuro, in altre parole mi è indifferente se riuscirò a produrre qualcosa di straordinario oppure no, perchè sono certa che ne verrà fuori qualcosa. Una volta vivevo sempre come in una fase preparatoria, avevo la sensazione che ogni cosa che facevo non fosse quella “vera”, ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora questo sentimento è cessato”.

L’immagine in evidenza è di Francis Bacon, “Studio per un ritratto di John Edwards” (1986).

Cigno n. 17 (1915), Hilma af Klint
6 Dic 2021
Krama
Dalle Upanishad a Gurdjieff, passando da Platone

“Sappi che il Sé è il padrone del carro ed il corpo è il carro, sappi che l’intelletto poi è l’auriga e la mente le redini.

I cavalli sono i sensi, gli oggetti dei sensi sono l ‘arena. I saggi chiamano “colui che prova piacere” l’insieme di Sé, di sensi e di mente. Colui la cui mente è instabile ha i sensi indocili, come un auriga che abbia cavalli bizzarri. Ma colui che possiede la ragione e ha la mente sempre presente, costui ha i sensi docili, come un auriga che abbia cavalli docili. Colui che è privo di ragione, senza criterio, sempre impuro, costui non giunge alla sede suprema, ma ricade nel ciclo delle esistenze. Ma colui che è dotato di ragione e di criterio, ed è sempre puro, giunge a quella sede donde non si ritorna più alla vita mortale. L’uomo che ha come auriga la ragione e come redini la mente, costui giunge al termine del cammino, alla sede altissima di Vishnu”.

Questa immagine dalla Katha Upanishad, che compare anche nelle Śvetāsvatara-upanişad e nella Maitrī) è stata ripresa da Platone nel Fedro e più recentemente da Gurdjieff.

Dai Veda al ‘900, questa simbologia mostra il persistente tentativo dell’essere umano di comprendere il legame tra gli oggetti che ci circondano, i nostri desideri, i vari strati mentali e quello spazio più profondo e talora inaccessibile da cui scaturisce l’intera osservazione.

Auriga, carro, cavalli sono parte di un tutto che si muove all’unisono.

Proprio come nella metafora platonica, dove due sono i cavalli trainanti: quello di buona razza, legato alla forza di volontà e quello “maligno”, l’anima concupiscibile legata al desiderio.

Se teniamo conto solo di un cavallo, la biga non si muove o si muove nell’affanno. Lo stesso accade se l’auriga, che rappresenta il pensiero razionale -più debole dei cavalli ma il solo capace di dare una direzione- non si coordina con i cavalli stessi.

Anche Gurdjieff usa l’immagine della carrozza trainata da cavalli: il veicolo è il corpo, i cavalli le emozioni e i desideri, il cocchiere è il pensiero razionale, il passeggero è l’io. I cavalli, viste le tante sgridate e repressioni, badano solo all’appagamenti dei sensi: quando si censurano emozioni e desideri, il risultato sarà esserne schiavi. Il cocchiere sa solo elaborare dati e azioni, senza provare emozioni; gli io si alternano continuamente. L’esito è che la carrozza si muove senza direzione, sempre lungo le stesse strade, in un viaggio monotono e senza vita.

Invece il nostro corpo avrebbe bisogno di percorrere strade sterrate (cioè esercizi e pratiche quotidiane come quella dello yoga) per contrastare la pigrizia (uno dei nove ostacoli alla sadhana anche per Patanjali) che ci impedisce di manifestare tutte le nostre energie.

Solo grazie all’esercizio si può acquisire consapevolezza del fatto che tutte le parti dell’essere umano sono comunicanti e fanno parte di una macchina già perfetta, che solo non sappiamo ancora guidare.

Corpo e mente non sono nemici l’uno dell’altro: come suggerisce Svatmarama nell’Hatha Yoga Pradipika, Hatha yoga e Raja yoga non possono che essere pratiche comunicanti.

Opera scultorea nell’edificio della piscina Cozzi a Milano (di fronte a Krama)
3 Dic 2021
Krama
L’educazione di Svetaketu

Studia i testi e poi dimenticali: Tat Tvam Asi 

Primo Khanda. C’era un tempo Svetaketu Aruni. Suo padre Uddhalaka gli disse: “Pratica il brahmacarya presso un Maestro, che non vi sia nella nostra discendenza un brahmana senza conoscenza sacra”. Svetaketu divenne perciò un discepolo dall’età di dodici anni, studiò tutti i Veda ed all’età di ventiquattro anni tornò a casa, superbo, fiero della sua erudizione.
Suo padre gli disse: “Svetaketu, mio caro, tu sei ora superbo, fiero della tua erudizione. Ma hai mai chiesto di ricevere quell’insegnamento che permette di udire l’inudito, di pensare l’impensato, di comprendere ciò che non può essere compreso?” “Com’è, signore, questo insegnamento?”
“Mio caro, è come se da un pezzo d’argilla si conoscesse tutto ciò che è fatto d’argilla, restando tutte le diverse modificazioni null’altro che distinzioni di nome e di linguaggio riguardanti una sola realtà, l’argilla; è come se in un ornamento di rame potessi riconoscere tutto ciò che è fatto di rame; e come se in un coltellino potessi riconoscere tutto ciò che è fatto di ferro (la distinzione è puramente verbale, è solo un nome, la realtà è `ferro’) così, mio caro, è questo insegnamento”.
“Certamente i miei onorati maestri non sapevano questo; se infatti l’avessero saputo, perché mai non me lo avrebbero insegnato? Ma ti prego, signore, insegnamelo tu”. “Così sia, mio caro”.

Secondo Khanda. All’inizio, mio caro, null’altro vi era che l’Essere (sat), senza dualità. Altri dicono: All’inizio vi era il Non Essere (a-sat), senza dualità; dal Non Essere nacque l’Essere. Ma, mio caro, come potrebbe essere possibile? Come può il Non Essere generare l’Essere? Al principio delle cose c’era l’Essere puro, senza dualità. L’Essere pensò: “Possa io diventare molti, possa io moltiplicarmi”. Creò il fuoco della mente (Tejas). Questo fuoco pensò: “Possa io diventare molti, possa io moltiplicarmi”. E apparve l’Oceano. Ecco perché quando si ha caldo si traspira, l’acqua è prodotta dal calore. L’Oceano pensò: “Possa io diventare molti, possa io moltiplicarmi”. E fece nascere il cibo. Ecco perché quando piove vi è cibo in abbondanza. […]

Ottavo Khanda. Uddalaka, figlio di Aruna, disse a suo figlio Svetaketu: “Lascia che ti spieghi, mio caro, la condizione del sonno. Quando una persona dorme, essa è assorbita nell’Atman: perciò si dice che dorme, perchè è assorbita nell’Atman. Come un uccello legato con una corda, dopo aver svolazzato a destra e a sinistra senza trovare dimora, si posa infine sulla corda stessa, così la mente, dopo aver svolazzato a destra e a sinistra senza trovare dimora, si posa infine sul prana stesso; perché, mio caro, la mente è legata al prana. Lascia che ti spieghi, mio caro, la fame e la sete. Quando una persona ha fame, è perchè l’acqua ha portato via ciò che la persona ha mangiato. Come si parla di guidare le vacche, i cavalli o gli uomini, così dell’acqua si dice che è ciò che “guida il cibo”. A questo proposito, mio caro, nota che il corpo è un germoglio che è spuntato, deve avere una radice. Che altro potrebbe essere la sua radice se non il cibo? E ancora, mio caro, il cibo a sua volta è un germoglio la cui radice è l’acqua. E l’acqua è un germoglio la cui radice è il calore. E il calore è un germoglio la cui radice è l’Essere. Tutte le creature hanno nell’Essere la loro radice, la loro dimora, il loro fondamento. Ora, quando una persona ha sete, è perchè il calore ha portato via ciò che la persona ha bevuto. Come si parla di guidare le vacche, i cavalli o gli uomini, così del calore si dice che è ciò che “guida l’acqua”. A questo proposito, mio caro, nota che il cibo è un germoglio che è spuntato, deve avere una radice. Che altro potrebbe essere la sua radice se non l’acqua? E ancora, mio caro, l’acqua è un germoglio la cui radice è il calore. E il calore è un germoglio la cui radice è l’Essere. Tutte le creature hanno nell’Essere la loro radice, la loro dimora, il loro fondamento. Di come ciascuna di queste tre divinità nell’uomo divenga triplice, mio caro, abbiamo già parlato. Quando una persona muore, la sua voce si ritrae nella mente; la mente si ritrae nel prana; il prana si ritrae nel calore; e il calore si ritrae nella più alta divinità. Ciò è l’Essenza più fine. E’ l’Atman di tutto il mondo. E’ la Realtà. E’ l’Atman. E tu sei ciò. Questo è il Vero. Questo è l’Atman. Che tu sei, Svetaketu”. “Ti prego, venerabile Signore, dammi di ulteriori istruzioni”, disse il figlio. “Così sia, mio caro” rispose il padre.

Nono Khanda. Come le api raccolgono il nettare di diverse piante e lo trasformano in miele, unificandone l’essenza, cosicché non è più possibile distinguere, “io sono il nettare di questa pianta, io sono il nettare di quella pianta”, così, mio caro, tutte le creature senza saperlo ritornano all’Essere. Qualsiasi cosa siano qui sulla terra, tigre, o leone, o lupo, o cinghiale, o verme, o mosca, o tafano, o zanzara, esse sono ciò. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di Essa, Essa è la vera realtà, Essa è l’Atman, e tu sei quello (Tat Tvam Asi) o Svetaketu.

Quattordicesimo Khanda. Una persona portata via dal paese di Gandhàra con gli occhi bendati e abbandonata in un luogo deserto può errare casualmente verso oriente, verso il settentrione o verso il meridione, poiché è stata portata via con gli occhi bendati ed è stata abbandonata con gli occhi bendati. Ma se qualcuno gli toglie la benda e gli dice: `Gandhàra è in quella direzione, va’ in quella direzione!’, allora, se è una persona sensata, può, chiedendo di villaggio in villaggio, ritornare a casa a Gandhàra.
Così su questa terra colui che ha un maestro sa che dovrà continuare finché non avrà raggiunto la conoscenza, la liberazione, ma poi arriverà a casa. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di Essa, Essa è la vera realtà, Essa è il tuo vero Atman, Essa sei tu o Svetaketu”. […]

Alcuni Khanda dal sesto Adhyaya della Chandogya Upanishad, in cui compare Tat Tvam Asi, uno dei più importanti Mahāvākya, i Grandi detti vedici, che significa “Tu sei quello”.

Sogno causato dal volo di un’ape, S. Dalì
1 Dic 2021
Krama
Hatha e Raja Yoga ne Il cielo sopra Berlino

Lo yoga e l’Occidente: il cinema

Sì, è magnifico vivere di solo spirito, e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l’eternità, soltanto ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa. E allora non vorrei più fluttuare così, in eterno: vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi questa infinitezza legandomi in qualche modo alla terra, a ogni passo, a ogni colpo di vento. Vorrei poter dire: “ora”, “ora”, e “ora”. E non più “da sempre”, “in eterno”. Per esempio… non so… sedersi al tavolo da gioco, ed essere salutato… Anche solo con un cenno… Ogni volta che noi abbiamo fatto qualcosa, era solo per finta. […] Non che io voglia generare subito un bambino, o piantare un albero. Ma in fondo sarebbe già qualcosa ritornare a casa dopo un lungo giorno, dar da mangiare al gatto come Philip Marlowe, avere la febbre, le dita nere per aver letto il giornale; non entusiasmarsi solo per lo spirito, ma finalmente anche per un pranzo, per la linea di una nuca, per un orecchio; mentire, e spudoratamente; e camminando sentire che le ossa camminano con te; supporre, magari, invece di sapere sempre tutto… “Ah!”, “oh!”, “ahi!”: poterlo dire, finalmente, invece di “sì” e “amen”.

Da Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, 1987

28 Ott 2021
Krama
Il Brahman e il punto fermo del mondo che ruota

Lo yoga e l’Occidente: la poesia.

Al punto fermo del mondo rotante.
Non corporeo né incorporeo;
non da né verso; al punto fermo là è danza,
ma non arresto né movimento.
E non chiamatelo fissità,
il luogo dove passato e futuro sono uniti.
Non movimento da né verso,
non ascesa né declino.
Fuorché per il punto, il punto fermo,
non ci sarebbe danza e c’è solo la danza.
Posso soltanto dire là noi siamo stati:
ma non so dire dove.
E non so dire, per quanto tempo,
perché questo è collocarlo nel tempo.
L’intima libertà dal desiderio pratico,
liberazione da azione e sofferenza,
liberazione dall’impulso interno
e dall’esterno, anche se li circonda
grazia di senso, una luce bianca ferma e in movimento.
Erhebung senza moto,
concentrazione senza eliminazione, un mondo nuovo
è il vecchio fatto esplicito,
capito nella completezza della sua estasi parziale,
nella risoluzione del suo parziale errore.
Eppure la concentrazione di passato e futuro
intrecciati nella debolezza del corpo che cambia,
protegge la razza umana dal cielo e dalla dannazione
che la carne non può sopportare.
Tempo passato e tempo futuro
consentono solo scarsa consapevolezza.
Essere cosciente non è essere nel tempo
ma soltanto nel tempo il momento nel roseto,
il momento sotto il pergolato dove batte la pioggia,
il momento nella chiesa piena di correnti e fumi,
si possono ricordare; uniti al passato e al futuro.
Soltanto col tempo il tempo è conquistato.

T.S. Eliot, da Burnt Norton, I quattro quartetti

La Terra vista dalla Luna (photo credits: NASA)

5 Ott 2021
Krama
L’intenzione muove l’azione

Più domande che risposte

Cos’è fisico? Cos’è mentale? Cos’è spirituale?
Stare molto in un asana, praticare solo alcuni asana, non praticare gli asana, meditare seduti, in piedi, studiare il sanscrito, leggere le Upanishad, vivere in un Ashram.
Stando all’unico (?) libro che ne traccia il solco, lo yoga è una pratica che porta alla chiarezza e alla pace della mente se pur immersi in un continuo stato di parinama, cioè di continua trasformazione fisica, mentale, esterna, interna.
Più che concentrarmi sul fatto che un asana sia “corretto” o che quell’insegnante sia “sbagliato”, che in quella scuola ci sia la “vera” pratica, mi chiedo qual è l’intenzione con cui pratico.
Toccarsi le punte dei piedi può essere un efficace esercizio di stretching anche per una ballerina o per un ginnasta e chiamarlo uttanasana non lo rende yoga.
Se però la mia intenzione è quella di osservare i miei condizionamenti profondi, la mia prospettiva ed anche quella del mio vicino, e notare che le mie azioni e le mie non azioni (!) sono determinate proprio da quei pattern mentali, ecco che, piano, le cose nella mia testa si fanno più chiare. I miei condizionamenti diventano sempre più evidenti. I miei genitori, le mie paure, i miei punti deboli, le mie qualità fisiche, i miei talenti emergono come i motori di molte mie decisioni. E quando ne colgo le cause, le mi scelte diventano più consapevoli. Perché sto facendo una verticale sulle mani? Perché me la prendo se mi dicono che faccio troppe cose? Perché non do abbastanza valore al mio tempo?
Molto spesso sono totalmente immerso nel giudizio, nella paura di non essere abbastanza, talvolta avverto una paura profonda senza causa.
Anche se l’esito della pratica non mi piace cerco di non giustificarmi e soprattutto di non trovare colpevoli, interni o esterni, a cui imputare il mio dispiacere. E sempre di più, aumenta la fiducia verso l’ignoto e riesco semplicemente a celebrare la vita.
Meno storie, più consapevolezza. Più domande, meno verità assolute. Più silenzio, meno domande. Semplicemente stare nella contraddizione perché è vita piena: è pace nella trasformazione.

Krishnamacharya in padahastasana

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